miércoles, 23 de mayo de 2007

El monasterio de Mar Musa, lugar de encuentro entre católicos y musulmanes

Posted by Rubén García  |  at   20:44

La historia impresionante de Paolo Dall’Oglio, un jesuita romano y de un monasterio en ruinas que reflorece en tierra arabe. En pleno desierto sirio surge entre las abruptas rocas como lugar de encuentro en el que musulmanes y cristianos adoran al Dios único.

(Está en italiano)

Il sentiero a lastroni rosa che si inerpica su per la gola rocciosa assomiglia alla cicatrice di un’immensa ferita. Una specie di esile sutura rimarginatasi zigzagando per dribblare strapiombi e infidi ghiaioni nel corpo aspro di una delle montagne del Jabal al-Qalamoun, tra Damasco e Aleppo. Lì sotto, il deserto da dove sale il vento tiepido di primavera si distende verso l’Iraq impazzito di bombe e terrore. Lassù in alto, invece, la luce radente della sera rende ancor più inarrivabile lo skyline scabroso del monastero di Mar Musa al-Habashi, San Mosè l’Abissino. I bastioni millenari affacciati sul dirupo, lì dove già una vecchia torre romana vegliava a sentinella dell’ostile limes persiano, ancora oggi danno l’impressione della cittadella inaccessibile ai briganti, della fortezza issata sul baratro da chi voleva vivere al riparo dalle tempeste della storia. Ma basta camminare in salita una mezz’ora, arrivare in cima, per accorgersi che si tratta di tutt’altro. La porta del monastero è ancora bassa, così che per entrare bisogna piegarsi, ma almeno adesso è sempre aperta.
Qui, proprio ai tempi di Muhammad, era arrivato Mosè l’Abissino, figlio del re d’Etiopia, in fuga dal suo destino dinastico per il desiderio di farsi monaco. Aveva preso dimora in una delle grotte che punteggiano la montagna, per rendere grazie a Dio con una vita di preghiera. Poi, mentre tutt’intorno si distendevano i secoli della civilizzazione islamica, sulla montagna di Mar Musa la vita cristiana aveva continuato a fiorire in un monastero di rito siriaco, incastonato in un alveare di caverne abitate dai monaci come celle di una laura cenobitica. Il declino era cominciato solo nel XVIII secolo. L’ultimo monaco era già partito nel 1830 quando il monastero diviene proprietà della Chiesa siro-cattolica. Da allora tutto sembrava destinato al disastro. Il vento e la neve, i vandali e la pioggia stavano sbriciolando la rocca monastica portando a valle frammenti di affreschi millenari e di fonti battesimali insieme ai detriti delle dolomie. Ogni anno, il 27 agosto, vigilia della festa di San Mosè l’etiope, solo i cristiani della vicina Nabek si ricordavano di salire alla cittadella in rovina, a ripetere preghiere di nostalgia tra i resti desolati del monastero. Fino a quando da quelle parti passò Paolo Dall’Oglio, gesuita romano, figlio scavezzacollo di sant’Ignazio. E anche, almeno un po’, di san Francesco.

Un nuovo inizio
A raccontare di padre Paolo si rischia di scivolare nel cliché dell’idealista ostinato dall’ego ingombrante. Figlio di uno dei leader democristiani della prima ora («quando tornavano in treno dalle grandi manifestazioni, a De Gasperi capitò di addormentarsi sulla spalla di mio padre Cesare, che alla fine degli anni Quaranta dirigeva i gruppi giovanili»), quartogenito di otto fratelli, casa borghese al quartiere Salario. E poi la militanza a sinistra, da cristiano “per il socialismo”, il volontarismo del ragazzo benestante da esercitare nelle borgate romane, lo scoutismo, il servizio militare negli alpini («volevamo occupare la caserma, aspettavamo da un momento all’altro il golpe degli americani…»). Fino al sorprendente proposito di entrare nella Compagnia di Gesù, emerso nel ’74 come risposta traboccante a una vocazione avvertita in mezzo ai mille desideri di vivere alla grande. Un’avventura che anche per casi fortuiti – un viaggio dalla Turchia alla Giordania, o l’incontro con l’islamologo gesuita Arij Roest Crollius – appare subito segnata dal fascino per il mondo musulmano, per quella moltitudine «che in ogni Paese s’inginocchia nel medesimo gesto, e prega sussurrando con la stessa lingua le sue parole di sottomissione all’unico Dio». A Pedro Arrupe già nel febbraio ’75 il novizio romano confida baldanzoso il suo desiderio di «offrire la vita per la salvezza dei musulmani». Il generale gesuita, squadrandolo con uno sguardo un po’ beffardo, risponde che «è una missione difficile, ma se è la volontà del Signore, si farà». Otto mesi dopo Paolo è già a Beirut a studiare arabo come un forsennato. L’olandese Peter-Hans Kolvenbach, a quel tempo alla guida della provincia gesuita del Medio Oriente, lo ospita nella residenza della Compagnia a pochi metri dalla linea verde che divide i fronti della guerra civile nella martoriata capitale libanese. E poi gli studi islamici a Damasco e all’Orientale a Napoli, e la scelta intuitivamente felice di radicarsi in una Chiesa locale d’Oriente, «di quelle che erano sopravvissute alla profezia coranica e per secoli avevano coabitato con essa». Sceglie il rito della Chiesa siriaca, «apostolica, semitica, popolare, una povera Chiesa di cristiani ai bordi del deserto, che non è mai stata imperiale» e la cui liturgia, «senza transitare per la lingua greca, ha assunto l’arabo, la lingua sacra dell’islam, conservando inni e preghiere in lingua siriaca (o aramaica) parlata da Gesù stesso». Nell’estate 1982, in cerca di un posto isolato dove ritirarsi per i suoi esercizi spirituali, le indicazioni di una vecchia guida della Siria pubblicata nel ’38 lo portano alle rovine del monastero di Mar Musa, abbandonato da due secoli. Entra nella chiesa dal tetto scoperchiato, la sua torcia elettrica scruta gli affreschi dell’XI secolo miracolosamente conservati: volti di santi e di sante dipinti nelle navate e fin sotto gli archi, e, sulla parete di fondo, un Giudizio universale con il Paradiso che si popola di profeti, evangelisti, santi e monaci, e l’Inferno pieno anch’esso di chierici e vescovi. All’inizio pensa soltanto che varrebbe la pena restaurare quel posto, magari coinvolgendo qualche amico monaco a Roma – i benedettini, o magari i trappisti. Ma poi, proprio in quei giorni, passano di lì dei cacciatori musulmani. Rimangono sorpresi di trovare qualcuno in quel posto. Cenano con lui, leggono insieme il Corano, prima di partire gli lasciano tutto il cibo che portano con loro, come per fare l’elemosina a un monaco. E il 27 agosto la stessa sorpresa la provano i cristiani di rito siriaco che come ogni anno a quella data salgono da Nebek. Pregano dentro la chiesa a cielo aperto insieme ad abuna Paolo, che a quel punto, in cuor suo, ha già deciso: quello è il posto buono per viverci tutta una vita.
Da bravo gesuita, s’imbarca nella sua impresa non programmata cercando senza pudori tutte le sponde possibili: Palazzi vaticani, governo siriano, Farnesina, Comunità europea, agenzie di volontariato internazionale, scuole archeologiche di restauro. Affronta col suo piglio vulcanico ostacoli di ogni tipo, come la ben comprensibile e prudente diffidenza di alcuni locali, tanto cristiani che musulmani. Anche il legame con la Compagnia di Gesù vive alcuni anni di “sospensione” prima che le cose si chiariscano. A partire dal ’91, Mar Musa ridiventa la sede di una piccola comunità monastica, con ramo maschile e femminile, riunita intorno alle tre «priorità»: preghiera (con le liturgie quotidiane in arabo secondo il rito siriaco), lavoro manuale (olive, capre, carne e formaggio, affreschi da restaurare, lavori in cucina, biblioteca) e ospitalità, «che nel mondo semita, arabo e d’origine nomade», sottolinea Paolo, «è la virtù più alta». A ben guardare, niente di originale. Ora et labora. Se non fosse che si è nel cuore dell’islam. E che gli ospiti a cui Paolo apre le porte del monastero sono soprattutto i figli e le figlie della Umma islamica. Quelli che ogni giorno ripetono almeno cinque volte, ad Allah grande e misericordioso, quell’affidamento alla misericordia divina senza il quale nessuno può piacere a Dio.

Gianni Valente (tomado de 30 Giorni

Sobre el autor

Blog del departamento de Teología del Istic

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